LA STORIA
Il nome "Tartufo" indica alcuni funghi sotterranei (ipogei) della classe degli Ascomiceti, conosciuti ed apprezzati sin dall'antichità per le loro caratteristiche gastronomiche.
Il nome "Talia" dal filosofo Plutarco di Cheronea che sosteneva l' ipotesi secondo la quale i tartufi sarebbero stati generati dalla combinazione di acqua, fuoco e fulmini scagliati da Zeus in prossimità di una quercia. Il mistero della loro natura è stato per secoli oggetto di dispute tra filosofi e scienziati, che hanno avanzato le ipotesi più disparate per spiegarne l'origine e giustificarne la presenza nel terreno.
Teofrasto, pensatore Greco del 300 a.C., disse che si trattava di vegetali senza radici che nascevano durante le piogge autunnali accompagnate da tuoni. Cicerone li ritenne figli della terra ed il grande naturalista Plinio il Vecchio li considerò "collosità" del terreno e miracoli della natura. I dotti del tempo si sbizzarrirono per stabilire l’origine del gustoso tubero: il poeta Giovenale ad esempio la fa risalire ad un fulmine scagliato da Giove in prossimità di una quercia.
Le prime testimonianze scritte risalgono al 1600-1700 a.C, ai tempi dei Sumeri e del patriarca Giacobbe. Gli antichi Sumeri utilizzavano il tartufo mischiandolo ad altri vegetali quali orzo, ceci, lenticchie e senape, mentre si dice che gli antichi Ateniesi lo adorassero al punto da conferire la cittadinanza ai figli di Cherippo, per aver inventato una nuova ricetta.
Plutarco azzardò l’affermazione alquanto originale che il “tubero” nascesse dall’azione combinata dell’acqua, del calore e dei fulmini. Simili teorie, condivise o contestate anche da Plinio, Marziale, Giovenale e Galeno, avevano come unico risultato quello di generare lunghe diatribe.
Molto probabilmente il loro “tubero" non era il profumato tartufo di cui noi oggi ci occupiamo, bensì la “terfezia Leanis” (Terfezia Arenaria) o specie consimili. Esse abbondavano, allora più di oggi, in Africa Settentrionale ed in Asia Occidentale, raggiungendo il peso di tre-quattro chilogrammi; è comprensibile che fossero molto apprezzate (al punto da essere chiamate “il cibo degli dei”), visto che a quei tempi erano del tutto sconosciuti i tuberi di origine americana, quali la patata ed i tapinambur.
Il Tuber magnatum Pico non entrò mai a far parte delle raffinatissime ricette romane, nonostante Roma ebbe per imperatore anche un cittadino albese, Publio Elvio Pertinace. I tartufi che deliziavano i palati dei patrizi romani erano scadenti solo nella qualità, perché, per quanto riguardava il prezzo, questo era salatissimo.
Lo scrittore Apicio nel suo “De Re Coquinaria” inserì sei ricette al tartufo nel VII libro, quello che trattava le pietanze più costose. Nel frattempo, gli studi sul tartufo si moltiplicarono. Plinio il vecchio lo definì “callo della terra”, mentre Giovenale si infatuo’ a tal punto da affermare che “era preferibile che mancasse il grano piuttosto che i tartufi”.
Il tartufo evitò per tutto il Medioevo le mense frugali dell’uomo e rimase il cibo di lupi, volpi, tassi, maiali, cinghiali e topi. Il Rinascimento rilanciò il gusto della buona tavola ed il tartufo si mise in marcia per conquistare il primo posto tra le pietanze più raffinate. Il tartufo nero pregiato apparve sulle mense dei signori francesi tra il XIV ed il XV secolo, mentre in Italia in quel periodo si stava affermando il tartufo bianco.
Nel ‘700, il tartufo Piemontese era considerato presso tutte le Corti europee una prelibatezza. La ricerca del tartufo costituiva un divertimento di palazzo, per cui gli ospiti e gli ambasciatori stranieri in visita a Torino erano invitati ad assistervi. Da qui forse nasce l’usanza di utilizzare per la cerca un animale elegante come il cane, al posto del maiale, utilizzato soprattutto in Francia.
Tra la fine del XVII ed inizio del XVIII sec., i sovrani Italiani Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III si dilettavano nell’organizzare vere e proprie battute di raccolta. Un episodio interessante riguarda una spedizione di tartufi avvenuta nel 1751 ed organizzata da Carlo Emanuele III presso la Casa Reale d’Inghilterra. Durante la giornata, furono trovati diversi tartufi, ma erano di valore estremamente inferiore rispetto a quelli Piemontesi.
Il Conte Camillo Benso di Cavour, durante la sua attività politica, utilizzò il tartufo quale mezzo diplomatico, il compositore Gioacchino Rossini lo definì “Il Mozart dei funghi”, mentre Lord Byron lo teneva sulla scrivania perché il profumo lo aiutasse a destare la sua creatività e Alexandre Dumas lo definì il Sancta Santorum della tavola.